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Channel: Serialmente » 11 settembre 2001
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They Had a Plan: 10 anni fa, l’inizio di Battlestar Galactica e il suo realismo sci-fi

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Hybrid: Throughout history, the nexus between man and machine has spawned some of the most dramatic, compelling, and entertaining fiction.
3×01, The Passage

Come dar torto all’ibrido, anche se sembra recitare frasi a casaccio con voce monotona e sguardo perso nel vuoto. Da Metropolis a Blade Runner, passando per Philip K. Dick, di esempi se ne possono fare a secchiate, e una delle opere migliori in questo campo ha appena compiuto 10 anni: il 18 settembre 2004 andava in onda 33, il primo episodio di una serie grandissima, Battlestar Galactica (e questo è il momento in cui la sottoscritta si scusa pubblicamente per aver bucato la deadline e completato questo pezzo con qualche giorno di ritardo: perdonatemi, per gli dei di Kobol!).

A dirla tutta, Battlestar Galactica inizia un anno prima, nel 2003, con la messa in onda della miniserie in due episodi da un’ora e mezza l’uno che costituiscono il punto di partenza della storia, e che se non avete mai visto la serie dovete assolutamente guardare prima di iniziare a recuperare le stagioni regolari. A dirla proprio tutta tutta, Battlestar Galactica inizia altri 25 anni prima, nel 1978, quando la ABC e Glen A. Larson confezionano con gran dispendio di mezzi e quattrini una serie sci-fi generalista per inseguire il successo debordante di Star Wars (di mezzo ci sono state pure delle cause legali incrociate per dibattere su chi avesse copiato chi, concluse in un nulla di fatto, perché evidentemente le astronavi e lo spazio non li hanno inventati né Larson né Lucas). La Battlestar Galactica del 2003-2004 è definita ufficialmente reimagined series, una cosa diversa da un remake, e a lavorarci è Ronald D. Moore (con David Eick), uno che di sci-fi ne sapeva, visto che aveva lavorato a tre “spinoff” di Star Trek (The Next Generation, Voyager e Deep Space Nine) e a Roswell (sul fatto che post BSG si sia un po’ perso via non mi addentrerei in questa sede). Dell’originale (che era sostanzialmente uno show per famiglie ambientato nello spazio, con battaglie stellari ma anche ampi stralci leggeri, alieni rettiloidi e perfino un Casinò dell’Universo) Moore e Eick prendono le premesse e la maggior parte dei nomi, poi ne traggono qualcosa di completamente diverso, e a tratti rivoluzionario. Il succo del discorso sta in un manifesto (sì, BSG ha un “manifesto”, tipo il Dogma 95, ma non lasciatevi intimorire) scritto da Moore che si intitola Naturalistic Science Fiction: Taking the Opera Out of Space Opera, un’idea semplice come tutte le idee geniali: facciamo una serie di fantascienza ambientata nello spazio con le astronavi, ma facciamo finta che quello che succede sia tutto vero.
Non che siano stati i primi a pensarci (così su due piedi mi viene in mente tipo Kubrick), ma nell’adesione costante a questo principio sta la forza di Battlestar Galactica: dall’impostazione stilistica alla costruzione dei personaggi, dalla funzione di commento culturale alla portata dei suoi quesiti filosofici e morali, è in questa direttrice perseguita con (più o meno) coerenza che la serie trova la chiave di una straordinaria rilevanza.

Ci sono cose che si ripetono sempre e l’umanità non sembra mai imparare dai propri errori: cercare di conquistare la Russia, per esempio, non è mai una buona idea, e neppure costruire macchine senzienti. Di cosa parla Battlestar Galactica? Di una galassia lontana lontana, in cui un sistema di 12 pianeti ospitava le 12 Colonie di Kobol: i coloniali hanno costruito i Cylon, robot sempre più sofisticati con il compito di alleviare le fatiche dell’umanità, solo che – appunto – le macchine si sono a un certo punto ribellate e hanno dato vita a una guerra sanguinosa contro i propri creatori. Dopodiché, raggiunta faticosamente una tregua, sono spariti per 50 anni e nessuno ne ha saputo più nulla. All’inizio della Miniserie, i Cylon ricompaiono, più evoluti che mai, e NUCLEARIZZANO L’UMANITà INTERA, tranne 50 mila “fortunati” che al momento dell’attacco atomico si trovavano a bordo di una manciata di astronavi, nello spazio. Non paghi del genocidio appena compiuto, i Cylon sembrano determinati a inseguire i sopravvissuti fino alle profondità più nascoste dell’universo e a eliminare anche l’ultimo coloniale esistente. Inoltre: i Cylon si sono evoluti a tal punto da aver prodotto modelli di androidi pressoché indistinguibili dagli esseri umani, alcuni dei quali annidati tra la flotta inconsapevole.
Insomma: in Battlestar Galactica ci sono intelligenze artificiali, robot, astronavi, cyborg, gente che si chiama Apollo, Adama, Athena, battaglie nello spazio, la visione misteriosa di una splendida donna in rosso che parla di un “unico vero Dio”, salti iperluce, profezie e misteri (e, per certi versi, tutto questo dovrebbe bastarvi a urlare «figata!»). Eppure io ora vi parlo di realismo. No, non sono (del tutto) pazza. Seguitemi: JUMP!

THEY LOOK HUMAN.

they look humanPartiamo dal primo tratto distinguibile e inequivocabile: Battlestar Galactica è girato come un documentario. Non esplicitamente, non è un mockumentary come Modern Family o The Office, ma il linguaggio con cui la serie si mette in scena è consapevolmente quello del reportage, del cinéma vérité: camera a mano, inquadrature lunghe, frequenti piani sequenza, movimenti veloci e nervosi, panoramiche a schiaffo, zoom e giochi di focali. Nel lungo piano sequenza che introduce la miniserie (un piccolo saggio di regia, capace di presentarci in pochi minuti quasi tutti i personaggi principali e l’ambiente in cui si muovono e di impostare subito il passo dell’intera serie), c’è un tizio con una discreta faccia da culo e una giacca di velluto, tale Aaron Doral, un addetto alle comunicazioni che sta scortando un gruppo di turisti per la Galactica illustrandone le caratteristiche: «form follows function» spiega, riferendosi al fatto che nulla sulla nave è lasciato al caso. «La forma segue la funzione» vale anche per la serie: lo stile adottato non è un vezzo autoriale, una furbata estetica fine a se stessa, ma raggiunge chirurgicamente lo scopo di calarci dentro la storia e di caricare tutto ciò che vediamo di verosimiglianza (bonus: riduce i costi di produzione, che per una serie sci-fi sono sempre un grosso discrimine per il rinnovo/cancellazione). Gli autori della serie applicano le marche enunciative tipiche di dispositivi veridittivi per amplificare la sensazione che ciò che stiamo vedendo sia reale, o in parole povere: ci fanno vedere quello che succede come se fosse il filmato di una telecamera presente sul posto, all’interno dell’universo diegetico della serie, così a noi sembra automaticamente tutto più vero. Lo sguardo documentaristico utilizzato in BSG non è però quello di un narratore onnisciente, di un regista che sta ricostruendo a posteriori, tramite il montaggio, una storia fotografata e già conclusa, ma è assimilabile a quello di qualcuno che si trovi in quel momento sulla Galactica: la sovrapposizione di sguardi fa in modo che noi si sia lì, sulla nave, in mezzo agli altri, sopravvissuti tra i sopravvissuti, con la sensazione di vivere quel che succede in tempo reale, insieme ai personaggi.

Questo per quanto riguarda il piano filmico. Su quello del profilmico, stessa cosa: la Galactica è un mix tra un sottomarino e una portaerei, non una nave spaziale dal design avveniristico. Anzi è perfino un po’ vintage: i personaggi parlano con telefoni a filo, usano il DRADIS che è solo un radar con un altro nome, salgono e scendono a piedi un’infinità di scalette, attraversano corridoi labirintici e spogli, i meccanici sono sporchi di grasso e riparano le navicelle con le pinze e i cacciaviti, nessuno blatera in technobabble, i piloti sembrano usciti più da Top Gun che da Star Trek, i gradi militari sono identici ai nostri, c’è una struttura politica democratica basata su libere elezioni, and so on. La dissonanza tra l’universo di Battlestar Galactica e il nostro è costruita su piccoli dettagli: gli angoli tagliati che popolano la serie di forme ottagonali, gli scarti nel linguaggio (il famoso frak che sta per fuck), la diffusa fede politeista, e via discorrendo. Accorgimenti che conseguono il doppio obiettivo di creare un ampio universo finzionale arredato nel particolare, mantenendo una fortissima familiarità con il nostro mondo.

THEY FEEL HUMAN.

they feel humanProvate a immaginarlo: un giorno, l’umanità intera viene spazzata via. Di miliardi di persone, restano circa 50 mila sopravvissuti. Il motivo della loro salvezza – il fatto di trovarsi su una nave nello spazio, lontano dai pianeti annichiliti – è ora la loro prigione: ammassati dentro non-luoghi transitori, costretti a dividersi risorse sempre più scarse, braccati da un nemico potente e misterioso, senza alcun posto dove andare se non una fantomatica “Terra” che potrebbe pure non esistere. Quali sarebbero le reazioni più verosimili? Battlestar Galactica non è la classica epica fantascientifica incentrata su eroi buoni contro antagonisti cattivi. Nessuno dei personaggi principali è eticamente e moralmente inattacabile (con l’esclusione, forse, di Lee “Apollo” Adama), tutt’altro. Il viaggio della Galactica è costellato di errori e di scelte terribili, ognuna delle quali obbliga di volta in volta lo spettatore a mettere in discussione le proprie certezze. Prendiamo ad esempio il pilot 33: cinque giorni dopo gli eventi raccontati nella miniserie, la flotta di superstiti protetta dalla Galactica continua a fuggire dai Cylon grazie a continui salti iperluce. I nemici riappaiono puntualmente, ogni 33 minuti, riuscendo sempre a rintracciare le coordinate dei coloniali. L’episodio rafforza la nostra identificazione con i personaggi umani, oltre che attraverso gli espedienti stilistici detti sopra, anche con la quasi coincidenza dello svolgimento temporale: i 33 minuti di angoscia che intercorrono tra un attacco e l’altro sono raccontati quasi in tempo reale, così da farci percepire efficacemente l’ansia, la stanchezza, la frustrazione dei personaggi. A un certo punto, però, si scopre il motivo della persistenza dei Cylon: c’è una nave, l’Olympic Carrier, che è “tracciata” dai nemici. Dilaniati da enormi conflitti morali, il Comandante Bill Adama e la Presidente Laura Roslin prendono una straziante decisione: distruggere l’Olympic Carrier, con tutto il suo carico di civili a bordo. Questa è solo la prima delle scelte cruciali che i protagonisti dovranno affrontare e, in un certo senso, sarà pure il loro peccato originale (la ricorderà ancora Lee nel difendere Gaius Baltar al processo che conclude la terza stagione): giusta o sbagliata? L’annientamento dell’intera razza umana è dietro l’angolo e modifica implacabilmente l’orizzonte morale dei personaggi, ma allo stesso tempo si riannoda a un altro dei fili rossi tematici che tengono insieme la serie: non è sufficiente sopravvivere, bisogna essere worthy of survival. Nella continua rinegoziazione di questo confine sta una delle sfide più appassionanti di Battlestar Galactica, incessantemente rilanciate allo spettatore, puntata dopo puntata.

Battlestar Galactica, a differenza della maggior parte delle space opera, non è una narrazione plot driven, ma character driven. La capacità di creare caratteri complessi, sfumati, ambigui è uno degli strumenti con cui la serie si rende imprevedibile e, ancora una volta, realistica. Quel che succede è conseguenza diretta delle scelte dei personaggi, che in un cast corale sono molte, contraddittorie, generatrici di effetti domino incastrati e sovrapposti. They have a plan, ripete l’incipit della sigla per almeno due stagioni, riferendosi ai Cylon, ma quale sia questo piano non lo sapremo, davvero, mai (o meglio, è molto più banale di quel che vorremmo). Come per le domande mai risposte di Lost, qualcuno si è indispettito per quest’assenza di risoluzione, ma per quanto mi riguarda, più si susseguono gli episodi, più i Cylon diventano “umani”, più appare chiaro che non può esserci alcun piano, perché quel che accade in Battlestar Galactica – così come avviene nella realtà – non segue una strada prefissata ma dipende da una moltitudine di imprevedibili variabili, impossibili da controllare o pianificare.

THEY REBELLED. THEY EVOLVED.

they rebelledUna delle intuizioni migliori di Moore e Eick è quella di rendere i Cylon “created by men” e di introdurre gli androidi uguali (quasi) in tutto agli esseri umani. Nella serie originale i Cylon erano sì intelligenze artificiali ribellatesi ai loro creatori, ma questi creatori erano una razza aliena dalle fattezze rettiloidi: i Cylon si presentavano in due forme, quella dei Centurioni robotici e quella dei Leader, identici alla specie che li aveva generati. Nella reimagined series non ci sono razze extraterrestri, e questo è innanzitutto un ottimo modo di aderire all’istanza realistica che è cardine del nuovo show. Ed è anche – gli autori lo hanno dichiarato – un modo intelligentissimo di risparmiare sugli effetti speciali (form follows function, sempre!). Ma concede alla writing room pure un serbatoio drammatico profondissimo: all’inizio della serie, il fatto che i Cylon siano indistinguibili dagli umani acuisce la paranoia (di personaggi e spettatori), perché il nemico può nascondersi dentro qualunque personaggio. Che ci sono 12 modelli di Cylon umanoidi lo scopriamo alla fine della Miniserie, alcuni di questi li conosciamo subito, per altri ci vorrà più tempo, per i Final Five le ultime stagioni. Non solo gli umani hanno paura che i loro vicini possano essere Cylon, ma a un certo punto cominciano a sospettare di poter essere essi stessi Cylon, a propria insaputa («some are programmed to think they are human»). In questa scelta, Battlestar Galactica si riallaccia a un prolifico filone filosofico-fantascientifico, quello che cerca, ancora una volta, di tracciare un confine, di rispondere a una gigantesca domanda: cos’è umano (e dunque worthy of survival)? Se l’uomo crea un androide in grado di fare esperienze, conoscere, imparare, provare dei sentimenti, formarsi delle memorie, cambiare, esattamente come un essere umano, quand’è che l’androide smette di essere una “cosa” e inizia a essere una “persona”? E, di riflesso, quand’è che le sue azioni smettono di essere responsabilità di chi l’ha creato e diventano responsabilità dell’androide stesso?

L’artificio si fa dunque specchio e amplificatore dei conflitti morali di cui si parlava più su, e nello stesso tempo adempie a una gustosa funzione metatestuale: vediamo letteralmente costruirsi sotto i nostri occhi i personaggi Cylon, che inizialmente sono come adolescenti irrequieti e impulsivi (“children of men”), e nel fare esperienza dell’esistenza, nell’entrare in contatto con l’altro, formano un’identità sempre più distinta (Sharon Boomer e Sharon Athena non potrebbero essere più distanti, così come le numerose manifestazioni di Number Six) e – di nuovo – incredibilmente autentica. E pure perfettamente aderente alla condizione di paranoia diffusa e di perdita d’identità (all’impossibilità di definire il nemico segue quella di definire se stessi) caratteristica del momento storico in cui Battlestar Galactica è approdata sui teleschermi americani.

THERE ARE MANY COPIES.

there are many copiesQuando abbiamo parlato di Lost, in tutti gli interventi, in un modo o nell’altro, è venuta fuori una connotazione della serie in relazione al contesto in cui è andata in onda. Battlestar Galactica ha messo in campo un’experience per certi versi simile a quella di Lost: anche qui c’era un’universo complesso da decifrare, una discreta quantità di misteri da risolvere e ampio materiale per formulare ipotesi, per trastullarsi in una grossa speculazione collettiva. Se, forse un po’ più di Lost, l’esperienza Battlestar Galactica si può ripetere anche sparandosi ora un bel binge-watching, una porzione gigantesca del “naturalismo” della serie e della sua connessione con il reale è anche collegato al periodo in cui è andata per la prima volta in onda. Insieme a 24Battlestar Galactica è stata probabilmente la serie che più ha riflettuto sull’America e sul mondo post 11 settembre 2001, condividendo le sue scelte stilistiche con altre opere cinematografiche che “parlavano” dell’attentato (Cloverfield, Redacted) e favorita ovviamente dalla sua stessa premessa: uno spropositato e del tutto inatteso attacco terroristico che ha precipitato il mondo nella paura, nella paranoia, nell’incertezza, e conseguentemente in uno stato di “guerra infinita”. Inizialmente, è stato quasi automatico leggere Battlestar Galactica come un’allegoria della situazione politica nazionale (mi riferisco agli Usa, ovviamente) e internazionale, al punto che – e la cosa mi ha sempre fatto un po’ sorridere – le prime due stagioni piacevano un botto ai critici conservatori: i Cylon erano jihadisti fanatici, sempre a blaterare dell’unico vero Dio e di come gli uomini meritassero l’estinzione a causa del loro stile di vita immorale e decadente; i coloniali erano gli statunitensi, spaventati e angosciati, timorosi che chiunque potesse essere un terrorista infiltrato, e Laura Roslin era “evidentemente” George W. Bush, investitura divina compresa (in due occasioni pronuncia addirittura una frase attribuita a Bush Jr.: «The interesting thing about being a president is that you don’t have to explain yourself to anyone»). Immaginate la doccia fredda della destra Usa quando, alla fine della seconda stagione, i Cylon invadono e occupano New Caprica con il dichiarato proposito di esportare la democrazia, pardon, il monoteismo, e salvare i coloniali da se stessi, instaurando un governo fantoccio e creando perfino una polizia composta da esseri umani. Gli episodi ambientati su New Caprica richiamano inevitabilmente la guerra in Iraq e in Afghanistan, così come, più volte nella serie, si affronta la questione della tortura, mentre stanno esplodendo gli scandali di Guantanamo e Abu Grahib. Non ho mai pensato che Battlestar Galactica fosse davvero un’allegoria, e nemmeno precisamente una metafora, ma mi ha sempre stupito la capacità di essere commento immediato e approfondito dell’attualità, sottolineando la complessità del reale piuttosto che fornire spiegazioni lineari e comode. La scelta di rendere i Cylon “figli degli uomini” si adatta a un ennesimo significato: chi ha creato i presupposti per l’interminabile guerra al terrore, in certa misura, se non gli americani stessi? Non ci sono forse colpe ed errori da rintracciare nel passato e nella storia («Sooner or later the day come when you can’t hide from the things that you’ve done anymore», dice Adama nella miniserie)? Sia come sia, è lampante quanto Battlestar Galactica, seppur non esattamente una copia dell’Occidente, parli esplicitamente di noi, problematizzando il presente.

Ma anche svincolata dal contesto post 9/11 (una chiave d’analisi che per un certo periodo è stata fin troppo abusata riguardo ai prodotti audiovisivi), la reimagined series s’intreccia inestricabilmente con l’immaginario occidentale, soprattutto americano, spesso citandolo esplicitamente: l’immagine del giuramento presidenziale di Laura Roslin (vista nella miniserie e ripetuta nella sigla) è ricalcata su quella famosissima fotografia di Lyndon Johnson che assume gli obblighi presidenziali sull’Air Force One dopo l’assassinio di Kennedy; la sequenza in cui Cally spara a Boomer assomiglia all’assassinio di Lee Harvey Oswald; il muro in cui la flotta raccoglie fotografie e ricordi dei dispersi e dei morti, prima con la speranza di ritrovarli e poi per omaggiare la loro memoria, è “lo stesso” dei newyorkesi ai piedi delle Torri sbriciolate; il conteggio dei sopravvissuti continuamente aggiornato dalla presidente è opposto e speculare a quello delle vittime di guerre, attentati e catastrofi; l’arco narrativo dedicato al processo a Baltar segue le tappe di un classico courtroom drama, genere in cui la cultura americana rimette in scena, ri-celebrandoli, i valori fondativi della propria democrazia. Il complottismo diffuso (“they have a plan”) poi è una chiave di lettura della realtà sempre presente nella cultura occidentale, acuita nei periodi di crisi. E, in generale, Battlestar Galactica si muove secondo due segni formali attraverso cui l’America si è sempre raccontata: l’assedio e la frontiera. Concedetemelo: lo spazio profondo in cui fuggono i nostri protagonisti è la stessa wilderness che spaventava e insieme nutriva gli esploratori che avanzavano verso Ovest, verso il miraggio di un mondo nuovo in cui ricominciare. E’ una storia antichissima, archetipica e che non smette mai di funzionare: Battlestar Galactica ce l’ha raccontata, di nuovo, riuscendo a rideclinarla nell’attualità attraverso un prodotto squisitamente fantascientifico.

SO SAY WE ALL

NUP_111710_1900Come forse avrete intuito, potrei continuare a parlarvi di Battlestar Galactica per altri mille paragrafi, gli spunti di riflessione sono talmente tanti che sono riuscita a trattarne solo una parte ridicola. Non ho detto nulla, per esempio, dell’ottima colonna sonora, di quanto abbia amato profondamente il personaggio di Kara Thrace e gli addominali di Lee Adama, di come l’old man sia un po’ il mio nonno ideale, del fatto che a un certo punto c’è pure Xena, cioè Lucy Lawless, di come probabilmente Gaius Baltar sia il personaggio più irritante di sempre dopo Joey Potter, di come il finale della seconda stagione mi abbia fatto lo stesso effetto del “we have to go back” di Lost, e di un mucchio di altra roba. Ma, ehi! I commenti sono lì apposta. Non mi addentrerei nelle considerazioni sul series finale, che tantissimi hanno detestato e che, secondo alcuni, sarebbe uno sfacciato tradimento del realismo di cui vi ho parlato: il problema probabilmente è che le serie tv sono fatte per durare e non sono, quasi mai, molto brave a finire. Che siate tra i soddisfatti o tra i delusi, come in altri casi l’esperienza Battlestar Galactica è fatta di tutto quel che viene prima dell’ultimo episodio. Almeno per me, ed è stata anche inaspettatamente, intensamente vera.

«Starbuck, what do you hear?»
«Nothing but the rain»
«Then grab your gun and bring home the cat»
«Boom boom boom!»

sigh

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